COMITATO NAPOLETANO BERSANI
RASSEGNA STAMPA
sabato 1 giugno 2013
IL LIBRO DI BERSANI
Il blogger di Repubblica Antonio Dipollina riporta scherzosamente, sul suo blog, l’ultimo scambio di battute tra Giovanni Floris e l’on. Pier Luigi Bersani a fine dell’intervista per Ballarò. Ricordo quì e magari al blogger, se mai potessi avere la fortuna che mi legga, che l’on. Bersani, per amore di precisione, ha dichiarato la sua filosofia sui libri proprio nell’ultimo libro-intervista scritto con e per lui a cura di Miguel Gotor e Claudio Sardo ” Per una buona ragione “. Dunque egli risponde così alla domanda su cosa l’avesse convinto ad accettare l’impegno del libro-intervista : “Avevo una remora verso l’idea di scrivere un libro perchè ho sempre pensato che per un politico l’umiltà di leggere dovesse prevalere sulla presunzione di scrivere. La formula dell’intervista lunga mi è sembrata una buona mediazione, e per me anche un’occasione di confronto dal momento che la conversazione è affidata al filtro delle vostre sensibilità (…)”
Dunque questo il faro illuminante sulla filosofia ed il pensiero di Pier Luigi Bersani.
La battuta di Dipollina è carina ma sinceramente è un umorismo inglese che poggia su poco.
questa la frase :
Giovanni Floris: “Un libro non lo scrive?”
Pierluigi Bersani: “Ma no, dai, i libri sono cose serie…”
(Bersani a Ballarò arriva all’ultima domanda e proprio non riesce a non dire male una cosa invece probabilmente sensata)
qui il link (…)
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Finanziamenti ai partiti, ecco la proposta Pd
ERA IL 18 MARZO 2013 ….
Bersani prepara un’altra mossa a sorpresa, dopo quella sulle presidenze delle Camere. L’obiettivo è lanciare un altro segnale di cambiamento… (…)
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ORA SIAMO QUI’:
Il finanziamento pubblico ai partiti è una delle modalità, assieme alle quote d’iscrizione e alla raccolta fondi, attraverso cui i partiti politici recepiscono e reperiscono i fondi necessari a finanziare le proprie attività. Il finanziamento pubblico esiste in diversi paesi. Nel Regno Unito c’è una legge del 1974, chiamata comunemente Short Money che assicura il finanziamento dei partiti di opposizione. In Australia il finanziamento pubblico è stato introdotto nel 1984 dal governo Hawke, con l’obbiettivo di ridurre l’influenza delle lobby sui partiti politici.
E ciò a ben ragione. In definitiva la lotta alla corruzione e per contro alla maggiore trasparenza dei partiti trova il suo primo punto di aggancio nella pretestuosa polemica che considera spese “inutili” o meglio insopportabili quelle destinate a finanziare le attività politiche e le manifestazioni pubbliche. Molte motivazioni delle origini di “tangentopoli”, si alimentano proprio sulla polemica, al quanto pretestuosa a dire il vero, del finanziamento pubblico ai partiti. Al contrario le attività di corruttela sono attività oltre ed altre al finanziamento pubblico ai partiti, che consentono ai cittadini di essere i veri intestatari dei diritti politici di cui si fa portatore quel determinato partito ma la cui gestione, semmai, dovrebbe essere oggetto di attenzione.
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Comunque, il referendum abrogativo promosso dai Radicali Italiani dell’aprile 1993 vede il 90,3% dei voti espressi a favore dell’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti, nel clima di sfiducia che succede allo scandalo di Tangentopoli.
Nello stesso dicembre 1993 il Parlamento aggiorna, con la legge n. 515 del 10 dicembre 1993, la già esistente legge sui rimborsi elettorali, definiti “contributo per le spese elettorali”, subito applicata in occasione delle elezioni del 27 marzo 1994. Per l’intera legislatura vengono erogati in unica soluzione 47 milioni di euro.
La stessa norma viene applicata in occasione delle successive elezioni politiche del 21 aprile 1996.
Il parlamento modifica la norma, con l’art 5 della legge n° 96 del 6 Luglio 2012, e obbliga un partito o un movimento ad avere uno statuto per aver diritto di ricevere i rimborsi elettorali.
C’è ancora da sottolineare in questo brevissimo sguardo normativo sul finanziamento pubblico ai partito, che, proprio per cronaca, il partito che gode della quota maggiore di finanziamento pubblico ai partiti è proprio il Popolo della libertà (Pdl), che vanta il maggior numero di aderenti e votanti, sebbene i risultati alle elezioni non sono sempre certi. Nel 1997 il Pdl prese la maggior quota in tutto parlamento di 206.518.945 €
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I COSTI DELLA POLITICA
Niente soldi ai partiti dal 2017 donazioni volontarie e 2×1000 Letta: “Legge da approvare subito”
I dubbi di Pd e Pdl. Grillo: “È solo una truffa”
La prima volta
Il 29 aprile, nel discorso programmatico, Enrico Letta promise che il suo governo avrebbe «rivoluzionato» il finanziamento pubblico ai partiti, partendo dalla «abolizione della legge in vigore». Allo stesso tempo è però importante, aggiunse, «attuare quella democrazia interna ai partiti» prevista dalla Costituzione
ROMA — Il Consiglio dei ministri ha deciso di cancellare il finanziamento pubblico ai partiti e ha approvato un disegno di legge che propone nuovi metodi per fare arrivare soldi alla politica: contributi volontari dei privati, 2 per mille, servizi e agevolazioni tipo spot gratis sulla Rai. Una riforma che comunque avrà una fase transitoria e sarà pienamente operante solo nel 2017. Sparirà così il meccanismo dei rimborsi elettorali che “occulta” un finanziamento che gli italiani avevano cancellato nel 1993 dicendo sì in massa ad un referendum radicale. Un colpo di spugna, quindi, su quello che il ministro per le Riforme Gaetano Quagliariello ha definito «un’insopportabile ipocrisia». Il via libera del Cdm però non piace per niente a Beppe Grillo che sul blog dà il via alla rivolta della base attaccando: «È una legge truffa, una presa in giro per i cittadini che continueranno a pagare per far campare i partiti». Con i deputati grillini che annunciano «proteste clamorose».
Il governo, comunque, canta vittoria. Nonostante sul testo gravi un “salvo intese” avallato da alcuni ministri. Uno stato di “sospensione” che il premier Enrico Letta si è affrettato a spiegare con «un controllo che deve fare la Ragioneria generale dello Stato». Perché non ci sono nodi politici. Perché «la coesione politica della maggioranza su questo punto è stata molto importante ». E adesso ha aggiunto Letta, «confido nel fatto che il Parlamento approvi rapidamente il ddl perché ne va della credibilità del sistema politico italiano».
L’ottimismo corre comunque. Soprattutto su Twitter. A cominciare dallo stesso Letta che annuncia il «passaggio a incentivazione fiscale contributi cittadini ». Cinguetta soddisfatto anche Silvio Berlusconi: «Promessa mantenuta!». Tocca a Quagliariello spiegare i contenuti della riforma. A partire da quel legame fra democrazia interna e trasparenza dei bilanci e diritto dei partiti ad avere il finanziamento.
Il ministro delle Riforme insiste sul fatto che il meccanismo del 2 per mille non è simile a quello del contestato 8 per mille alle chiese. Anche in questo caso i soldi potranno essere dati ai partiti o allo Stato. Ma il denaro di chi non farà scelte sarà diviso fra Stato e partiti rispecchiando questa prima scelta. Quelli destinati alla politica saranno poi distribuiti ai partiti in maniera proporzionale alle scelte fatte in loro favore dei contribuenti. Comunque i partiti, dal gettito del due per mille non potranno avere più di 61 milioni. E i soldi risparmiati rispetto ad oggi andranno in un fondo per risanare il debito pubblico.
Critiche al testo arrivano da avversari storici del finanziamento pubblico come il segretario di Radicali italiani Mario Staderini, convinto che «non è una abolizione bensì una modalità diversa». E per questo ricorda che oggi i radicali iniziano una campagna referendaria su 10 quesiti che prevede anche l’abolizione del finanziamento. Ma il ddl è bocciato anche da paladini storici del finanziamento. Come, per esempio, il tesoriere storico dei Ds Ugo Sposetti che boccia il 2 per mille perché «non funziona così la democrazia». Pollice verso anche da tesoriere del Pdl Maurizio Bianconi. La riforma di Letta, spiega, «è un po’ di carosello per avere una fiducia popolare che teme di non avere». Scettico anche Fabrizio Cicchitto che di fronte al testo solleva il dubbio: «Quale sarà l’autorità che valuterà se lo statuto di un partito risponde a criteri di trasparenza e di democraticità?».
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Rappresentanza, svolta storica: siglata intesa tra sindacati e Confindustria (…)
Una bella relazione, quella del governatore. Stringata e asciutta, com’è nel nuovo stile della casa. Ma oggi come allora (e come è accaduto anche all’assemblea di Confindustria una settimana fa), l’establishment celebra i suoi riti autoreferenziali lanciando speranzosi messaggi in bottiglia a una politica che non li raccoglierà. Parlando a se stesso di un altro «anno difficile», di «gravi prove» che la collettività ha dovuto affrontare, di «progressi insufficienti». Ma intanto, «fuori», svaniscono un milione e 400 mila posti di lavoro, la disoccupazione giovanile supera il tetto del 40%, i prestiti delle banche si contraggono di 60 miliardi, falliscono 14 mila imprese all’anno, bruciano 230 miliardi di Pil in cinque anni.
In queste condizioni non deve essere più tanto facile fare il banchiere centrale, senza sentire il peso di una situazione drammatica che, come dice giustamente Visco, in teoria chiama in causa tutti (dai «rappresentanti politici » che «stentano a mediare tra interesse generale e interessi particolari», alle «imprese, le banche, le istituzioni »). Ma in pratica presenta il conto solo ai tanti che, in quel salone di Via Nazionale, non ci sono, non si vedono e non si sentono. Le famiglie mono- reddito, i pensionati al minimo, i precari, le finte partite Iva, i disoccupati, i cassintegrati. Qui non si tratta di fare populismo un tanto al chilo. L’auto-rappresentazione delle classi dirigenti è fisiologica nelle democrazie moderne dell’Occidente. Ma non può e non deve diventare auto-assoluzione delle élite, che tutt’al più si rimpallano le colpe tra di loro.
Nella relazione del governatore non c’è una sola riga che non sia condivisibile, e improntata al rigore scientifico, analitico ed etico che da sempre contraddistingue la Banca d’Italia e ne fa (insieme al Quirinale) l’istituzione più autorevole del Paese, al quale presta, non a caso, da decenni le sue migliori risorse umane e professionali. La criticità dell’euro e la centralità dell’Europa. Il ruolo insostituibile della Bce, che finora ha salvato da sola la moneta unica e persino l’Italia, dove gli interventi «non convenzionali » decisi da Draghi hanno contribuito a sostenere il Pil per almeno 2 punti percentuali e mezzo negli ultimi due anni. La necessità di completare il processo di integrazione «monetaria, bancaria, di bilancio e infine politica ». Ma quando l’orizzonte si restringe sull’Italia, subentra uno sconforto che l’intero «Sistema» (non solo quello politico, ma anche quello industrial-finanziario) non può non avvertire come risultato di una sua inadeguatezza.
E se oggi è davvero a rischio «la coesione sociale», questo non può dipendere sempre e soltanto da una politica sorda e codarda. Dall’osservatorio di Palazzo Koch la Prima Repubblica non è mai finita. L’Italia si è fermata «a venticinque anni fa». Siamo cioè nello stesso Jurassic Park del 1988-89, quando governava l’Andreotti VI, Tangentopoli covava sotto la cenere, esplodeva lo scandalo Bnl-Atlanta, infuriavano le proteste sulla chiusura dello stabilimento Italsider di Bagnoli, le lettere del corvo ammorbavano il pool antimafia, e proprio Carli da neo-ministro del Tesoro sbatteva i pugni e la testa contro il «partito trasversale della spesa». Basta sostituire il penta-partito di Andreotti con il «governo di servizio» di Letta e Alfano, Bnl-Atlanta con il Montepaschi, l’Italsider di Bagnoli con l’Ilva di Taranto, i veleni del corvo di Palermo con i miasmi della trattativa Statomafia, Carli con Fabrizio Saccomanni. E il gioco è fatto.
Da lì, da quelle «debolezze strutturali», non ci siamo quasi più mossi. Abbiamo rinviato il risanamento del bilancio. Non abbiamo qualificato la scuola e l’università. Non abbiamo lottato abbastanza contro la corruzione e l’evasione. Non abbiamo riformato il mercato del lavoro. Non abbiamo semplificato la nostra burocrazia, per rendere la vita più facile ai cittadini e l’ambiente più propizio alle imprese. Quello che Visco dice, ed ha perfettamente ragione, è che tanta parte della nostra arretratezza è imputabile a un capitalismo senza capitali, a un tessuto industriale che ha rifiutato la sfida del libero mercato e dell’innovazione di prodotto e di processo, privilegiando la rendita agli investimenti. Quello che Visco non dice, e ha torto a non farlo, è che nella crisi le banche hanno avuto ed hanno un ruolo cruciale, non meno «critico» di quello delle imprese. Ilcredit crunch è un nodo scorsoio che si stringe al collo delle famiglie e delle aziende. È vero che le sofferenze esplodono, ma una parola di più ai Signori del Credito il governatore avrebbe potuto e dovuto spenderla, per spiegare come si può allentare quella morsa.
Dietro l’angolo non c’è molto di buono. In un anno non se ne possono recuperare venticinque. Non aspettiamoci che la Ue, chiusa la procedura d’infrazione, ci proietti nelle verdi vallate del deficit spending. Non andrà così. L’austerità non può finire, non si esce dalla crisi «con la leva del disavanzo». La ricetta del governatore è di assoluto buon senso. Possiamo ridurre le imposte solo in modo selettivo, tagliando la spesa corrente e privilegiando il lavoro e la produzione (magari non trasformando l’Imu in un feticcio ideologico). Dobbiamo spostare l’attività industriale dai settori in declino a quelli in espansione, rassegnandoci all’idea che molte occupazioni scompariranno per sempre. E senza un piano di lungo periodo sul lavoro e la formazione, a salvare i giovani non basterà il miraggio della «staffetta generazionale ». In definitiva, serve «un programma credibile », che incida sulle aspettative e ridia la fiducia necessaria. Così, alla fine, si torna all’inizio: in tutti i settori della vita pubblica, servono leadership all’altezza del compito, che diano l’esempio e inoculino civismo in un tessuto sociale, imprenditoriale e sindacale, irrigato dal cinismo. Ma nell’Italia di oggi c’è traccia, di un establishment siffatto? La stagione delle Larghe Intese sarà anche quella delle Lunghe Attese.
m. giannini@repubblica. it
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SEL SOTTOLINEA CHE NEL DDL LETTA SUL FINANZIAMENTO PARTITI NON C’E’ TETTO MASSIMO DEL CONTRIBUTO DEI PRIVATI E NON C’E’ REGOLA PER FINANZIAMENTO FONDAZIONI
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PD
LE SCELTE DEI PARTITI
La protesta
Lavoratori del Pd in rivolta “Tutta colpa del grillismo” Il Pdl chiude la sede storica
Epifani: non lasceremo nessuno per strada
di GIOVANNA CASADIO CARMELO LOPAPA
ROMA — «È un problema che va affrontato, bisogna vedere bene questa legge che abolisce il finanziamento, ma non lasceremo nessuno per strada». Guglielmo Epifani, l’ex sindacalista della Cgil diventato segretario del Pd, si è chiuso l’altra sera nel suo ufficio con il tesoriere Antonio Misiani per studiare come evitare licenziamenti e cassa integrazione. Ma i 200 dipendenti democratici sono sul piede di guerra. Preoccupati? «È dire poco…». Arrabbiati, delusi, riuniti in capannelli al Nazareno. Mormorii: «Ecco a cosa porta il grillismo»; lettere sul blog di Repubblica: «Sono un dipendente del Pd, mia moglie è in cassa integrazione, lavoro da vent’anni e guadagno 1.800 euro, lavoro per la politica ma non sono un politico». Esempio vivente di come paghino alla fine i deboli, in questo caso i lavoratori dei partiti. Su Youdem,la tv democrat (che ha già tagliato da ottobre un milione di euro di produzione), parla uno dei delegati dei dipendenti, Silvana Giuffré: «Abbiamo un “piano b”, speriamo possa essere accolto».
Ma è su Twitter che i lavoratori del Pd si scatenano. Andrea Marcucci, senatore renziano s’azzarda a twittare: «Ok Letta su finanziamento, ma tempi più brevi». Una dipendente replica, al curaro: «Senza una applicazione graduale il Pd chiude, è questo che vuoi?». Toni sempre più alti, fino a indicare i soldi che le aziende del senatore Marcucci hanno avuto dallo Stato. La replica: lì ci lavora un sacco di gente. La controreplica: anche al Pd ci lavora «tanta gente perbene». Forse nel Pdl va meglio?
No. Ammainate il Tricolore al balcone. Ancora un mese e il 30giugno il partito di Berlusconi fa armi e bagagli e abbandona la storica sede di via dell’Umiltà 36. Effetto immediato della crisi finanziaria e dell’ulteriore colpo di scure ai finanziamenti anche alla corte del Cavaliere. Come per il Pd, sono le ricadute sul personale le più pesanti. Su 210 dipendenti in tutta Italia, 90 a Roma (38 dei quali assunti solo nel 2012), almeno una quarantina – raccontano alcuni dirigenti – adesso rischiano il posto: proprio a partire dagli ultimi entrati. E qui non si parla di cassa integrazione, già esclusa ieri dal tesoriere del partito Maurizio Bianconi che pure non conferma gli esuberi. Taglia corto: «Studieremo formule che portino a un’autoriduzione dello stipendio e taglieremo tutto il possibile prima di incidere sul personale». Insomma, Pd e Pdl hanno gli stessi problemi?
Non proprio, spiega Antonio Misiani. Il tesoriere democratico indica tra i punti della legge appena varata dal consiglio dei ministriche vanno subito modificati in Parlamento, il tetto alle donazioni. Perché non ci siano «dei miliardari », leggi Berlusconi, che «staccano assegni di milioni di euro, e i partiti senza miliardari s’attaccano ». Il Pd intanto lascia le sedi di via del Tritone e di via Tomacelli, resta tutto e solo al Nazareno. I circoli locali godono di autonomia e (pochi) dipendenti. Il bilancio complessivo 2012 è stato di 40 milioni di euro; rimborsi già dimezzati a luglio scorso. Ma nonostante il miliardario Berlusconi anche nel Pdl si respira un clima pesante.
Dopo il varo del ddl Letta gli impiegati escono a capo chino da via dell’Umiltà, nessuno si ferma davanti alle troupe che incalzano.Meglio non esporsi. Vite sospese. E’ andata ancora peggio ai trenta dipendenti del gruppo alla Camera non rinnovati e sostituiti da Brunetta. Il fatto è che, raccontano, non è stata loro pagata neanche la liquidazione. Il capogruppo ha lasciato trascorrere due mesi e poi ha avviato procedura di incapienza all’Inps. Che ora dovrà procedere direttamente, ma coi tempi biblici dell’Istituto. Nessuno ha protestato pubblicamente, nella speranza di essere assorbiti nei ministeri. Invano. Mentre tutti gli altri gruppi parlamentari nelle medesime condizioni la liquidazione risulta l’abbiano pagata. Il fatto è che il Pdl – che lo scorso anno ha visto decurtare il finanziamento da 68 a 34 milioni – ha ancora un bilancio da 17 milioni di euro. E le famose fideiussioni del leader sono ormai ridotte al lumicino. Ci sono 90 sedi locali da mantenere e soprattutto via dell’Umiltà, un affitto da 2 milioni di euro l’anno. Bianconi è contrario alla scure Letta-Alfano. «In previsione, abbiamo disdetto tutte le sedi territoriali e regionali e non abbiamo rinnovato i contratti a termine o a progetto, in questo ci ha aiutati la Fornero». Però Mariastella Gelmini, molto vicina al capo, esulta: «Era uno degli obiettivi contenuti negli otto punti di programma del partito. Si risparmiano 91 milioni di euro, un segnale importante inviato ai cittadini». Al Pd, Misiani assicura che si batterà perché anche per i partiti possano valere i contratti di solidarietà: si paga un po’ tutti, senza traumi.
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Rodotà: ”Chiamare Grillo? Perché avrei dovuto?” (…)
su “l’Unità” intervista
a Rodotà su Grillo e riforme
Rodotà a Grillo: «Insulti inaccettabili» (…)
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IL LIBRO DI FINI SUL CAVALIERE
Il caso
L’ex presidente della Camera vuole dare alle stampe il suo racconto sulla destra e sui venti anni passati vicino a Berlusconi
“Tutta la verità sul Cavaliere”, il libro di Fini
di TOMMASO CIRIACO
ROMA — L’aveva promesso, incontrando i reduci di una destra ormai dispersa: «Lascio Fli, sarei d’ostacolo. Voglio essere finalmente libero di parlare, senza danneggiarvi». Più che parlare, Gianfranco Fini scriverà. Anzi, in segreto, ha già iniziato a scrivere. Un titolo definitivo del libro ancora non c’è, ma l’idea è di raccontare “La destra nel ventennio di Berlusconi”. È un progetto concepito nelle ultime settimane e servirà ancora del tempo per mandare il testo in stampa. Ma la “scaletta” già esiste, come ha spiegato ad alcuni amici con i quali continua a confrontarsi: «Racconterò la nostra storia. Dal 1993 a oggi. Parlerò di tutti noi. E del rapporto con Berlusconi». E visto che la narrazione arriva dall’eterno delfino del Cavaliere, infine spiaggiato con gran soddisfazione dell’uomo di Arcore, vale la pena di tenersi liberi.
La botta elettorale è stata violenta. Cellulare staccato e riposo. Poi la decisione, irrevocabile, di dire addio a Fli. E di dedicarsi alla scrittura. In prima persona, senza farsi sostenere nello sforzo da altri (come in occasione dell’opera precedente, “Il futuro delle libertà”). Per elaborare il lutto, spiega chi lo conosce bene. Di certo, anche pertogliersi qualche sassolino dalle scarpe. O forse qualche macigno.
Ha dominato i post missini per quattro lustri. Montagne russe, fino allo schianto elettorale del febbraio 2013. La storia partirà dalle Comunali di Roma. Già allora – era il 1993 – entra in scena Berlusconi, assoluto co-protagonista del libro. Ma la penna non sarà guidata dal risentimento verso l’ex premier, ha giurato Fini a uno dei suoi. Basterà far parlare i fatti. «Voglio fare un bilancio. Senza sconti, con rigore. È anche un modo per riordinare le idee».
Sarà il racconto di una cavalcata che ha condotto la destra al governo e Fini alla Farnesina. Luci e ombre. Vittorie e sconfitte. L’ex presidente della Camera racconterà tutto. I rapporti difficili con i colonnelli e l’infinita competizione con Berlusconi. Lo scontro finale. E i fallimenti. L’infelice avventura dell’Elefantino, l’ambiziosa sfida (persa) di Futuro e libertà. Le sue colpe e quelle di chi l’ha prima accompagnato e poi mollato per seguire Berlusconi. La sconfitta subita per mano del berlusconismo, prima ancora che di Berlusconi. «Ora che ho fatto un passo indietro dal partito, finalmente, sono libero di dire quello che penso», ripete.
Racconterà anche dell’assise di An a Verona, metafora dell’irrisolto rapporto con “Silvio”. Era il 1998 e il futuro Presidente della Camera decise di chiudere i conti con l’anticomunismo. Ma all’improvviso arrivò il Cavaliere, in elicottero. Ospite d’onore, portò in dono ai cinquemila delegati “Il libro nero del comunismo”. Poteva funzionare?
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